Si arriva a Casa Leopardi con l’anima ancora persa fra i colli e la campagna. Ci si trova davanti a un baluardo: è la torre civica, simbolo della fusione dei tre castelli che dominavano sul colle recanatese. Lo sguardo è distratto, “nel pensier si finge”, lasciandosi alle spalle abbagli di verde e chiese fra le mura del borgo. Tra tutte, la chiesa di S. Maria di Montemorello costruita da Pier Niccolò Leopardi nella seconda metà del Cinquecento. La strada, la luce, forse, sono sempre le stesse di due secoli fa. Con il sole o senza si percepisce, comunque, la luminosità del luogo: delle mura, delle finestre rinascimentali, delle case chiuse entro il perimetro della piazza come in un quadro del Ferrazzi.
Entrare in Casa Leopardi significa oltrepassare una linea fra modernità e antichità
E davanti allo scalone centrale, di gusto settecentesco, non possono che tornare alla mente le parole di Winckelmann:
“L’unica via per divenire grandi e, se possibile, inimitabili, è l’imitazione degli antichi”.
Giacomo Leopardi questo lo sa: il suo sarà un dialogo serrato con il mondo classico. Nasce in questa casa il 29 giugno del 1798, figlio primogenito di Monaldo Leopardi e Adelaide Antigi. Dal palazzo esplora l’orizzonte recanatese, ma risente presto dell’affettazione del padre.
La biblioteca da cui il giovane scrittore attinge, si deve soprattutto all’opera paterna.
Monaldo, fin dall’adolescenza, raccoglie libri in una quantità sempre crescente, fino a toccare l’apice delle 12.000 copie: un patrimonio librario eccezionale per l’epoca.
– Proprietà, disinvoltura, ricchezza, eleganza, mollezza e fluidità –, così il poeta nello Zibaldone, descrive la grazia dei versi, che gli antichi greci traggono dall’Attico.
Il percorso inizia nella stanza “dell’Alcova” che contiene sia opere di carattere letterario che scientifico: incunaboli e manoscritti. La prima sala, invece, conserva libri di argomento enciclopedico: le famose “Encyclopédie” di Diderot e d’Alembert. Si ha l’impressione di rivedere Leopardi sfogliare un libro, intingere la penna nel calamaio, guardare distrattamente verso la finestra con vista sulle scuderie, che un tempo ospitavano alcune famiglie di domestici. Pare di vederlo mentre osserva Teresa Fattorini seduta davanti al telaio, l’indimenticabile Silvia, desiderio e promessa eterna di giovinezza per il Giacomo, adolescente. Qui, non arrivano canti e voci, ma forse “sedendo e mirando” il paesaggio dalle finestre si può intravedere ancora “La donzelletta venir dalla campagna in sul calar del sole, col suo fascio dell’erba”. Si aspettano il sabato, l’aria di festa, i fischi, i rumori lieti, l’azzurro sereno fra i tetti. Sono una promessa di felicità che non abbandona il visitatore.
Proseguendo il percorso si arriverà alla seconda sala in cui si trovano opere di carattere teologico.
Ed eccolo Leopardi, lo immaginerete leggere i libri proibiti: la Bibbia poliglotta di Walton. Resta aperta sul tavolo l’edizione del 1657, testo che gli consentirà di approfondire anche l’ebraico. Viene quasi l’istinto di sfogliarla per trovare una pagina consumata dalle sue dita. La stanza adiacente è lo studio del padre. Da qui Monaldo osserva i figli studiare; li mette alla prova. Qui conserva i loro disegni ai lati di un antico caminetto. Si dice che avesse un carattere imprevedibile, ma anche una delicatezza inattesa. Su un’altra parete vedrete due stampe – impossibile non notarle –: sono i programmi di due saggi offerti al pubblico dei fanciulli Leopardi. Sì, perché Monaldo ha alti ideali per i suoi figli e poi lui, reazionario di ampie vedute, prima di Giacomo giudica il mondo alla luce del pessimismo della ragione. A dimostrazione del fatto che la casa sia ancora viva, la contessa Olimpia Leopardi, ultima discendente del poeta, riapre le stanze nobili dopo due secoli. Una donna, dopo una lunga genealogia maschile. Nel percorso che ha come titolo “Ove abitai fanciullo” sono svelati i saloni di rappresentanza.
Fra le sale spiccano i ritratti di famiglia e le teche con le medaglie raccolte dal padre.
Il visitatore sarà attirato da un arazzo rosso con lo stemma dei conti Leopardi di San Leopardo e, proseguendo, in galleria, dai dipinti bucolici dei “Figurati armenti”, di Philipp Peter Roos. La galleria è anche un proscenio, gioco e teatro di battaglie, come scriverà il fratello Carlo, nelle memorie riferite a Prospero Viani.
“La fanciullezza di Giacomo passò fra giuochi e capriole e studi. Nei giuochi e nelle finte battaglie romane che avvenivano in giardino, egli si metteva sempre primo. Ricordo ancora i pugni sonori che mi dava! Aveva l’abilità e l’uso di fare spesso con tutte due le mani un certo giuoco, come di nacchere, famigliare, diceva egli, agli antichi; onde faceva una certa musica”.
“Anche i miei figli vivono qui – dice la contessa –, giocano qui, credo che ogni discendente abbia un legame unico con questa casa, con l’anima stessa del poeta”.
Il giardino ha rose e glicini; foglie e fiori campestri per l’immaginazione del visitatore.
È qui che nasce nello scrittore un rapporto morale, eterno con la natura, intesa sia come materia incorruttibile che come matrigna dispensatrice di illusioni. La risposta della natura è sempre tagliente: l’universo è un circuito di creazione e distruzione. Da questo “taglio” nascerà il Leopardi moderno, funambolo fra ragione e sentimento.
“La ragione è nemica d’ogni grandezza – afferma nello Zibaldone – la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola”.
E Olimpia Leopardi accoglie ancora oggi questo sentimento. Restaura le brecce: stanze finora chiuse al pubblico.
Un lungo restauro – dice – durato anni.
Si sale una scala a chiocciola per arrivare al salotto e alla camera di Carlo, ma l’infinito, statene certi, è racchiuso solo in una stanza, quella del poeta, con vista “fiorita” sul giardino de Le ricordanze. Da qui, le vaghe stelle dell’Orsa disegnano ancora le stesse notti. Sono meridiani fra oggi e ieri, che si perdono nel mistero magico leopardiano. E non è difficile immaginarlo l’infinito, “ove per poco il cor non si spaura”. Da queste finestre entra una luce che non è luce, è un’immensità in cui s’annegano i pensieri come schegge, desideri, oltre la siepe.